Everest, un film da vedere. Un film per chi ama la montagna, ma anche per chi non la conosce e non ne comprende i sentimenti. Poetico e avvincente, Everest non è un film banale, non può esserlo; racconta una delle più incredibili e drammatiche avventure sulla montagna più alta e affascinante del mondo, che nel 1996 coinvolse le spedizioni guidate da Rob Hall e Scott Fischer. Nel film s'intrecciano il fascino incontaminato e maestoso della natura e il vissuto dei vari personaggi, chiamati al giudizio inappellabile della grande montagna. Tutti possono trovarci parte di se stessi. La montagna è Moby Dick, la montagna è dio: un'enorme metafora di ghiaccio e furia, un baratro senza fine sotto i piedi dell'ambizione, della vanità, dell'irrefrenabile desiderio dell'uomo di affrontare e superare qualcosa o almeno se stesso, a costo di rischiare la propria vita pur di dimostrare di averne ancora una. Alla ricerca entusiasta e affannosa della grande bellezza che nessuno ha mai visto, sogno accecante nel bianco che annulla e a volte divora. Perché il problema non è arrivare in cima: è tornare indietro. «Perché lo fai? Perché è lì». Queste furono le parole di George Mallory, un alpinista inglese che mori nel tentativo di salire l’Everest ventinove anni prima di Edmund Hillary e dello sherpa Tenzing Norgay. Quindi perché scalare l’Everest? Perché è lì, appunto, si tratta di una sfida innata nell’uomo quella che muove i protagonisti del film. L’uomo, oggi come nelle civiltà passate, avverte nella montagna il fascino misterioso del sublime e delle più svariate forme di estasi. Profondamente radicate nell’uomo, ci sono motivazioni antropologiche che hanno portato all’identificazione dei luoghi sacri: la montagna, la sorgente, la grotta, la foresta, sono così diventate sedi privilegiate del sacro. La montagna e la spiritualità ad essa legata ha da sempre assunto moltissimi significati nella storia delle idee e delle credenze. In tutte le religioni, la montagna è il simbolo della trascendenza che è immaginata sempre in alto. Così i monti, con le loro vette che si innalzano nel cielo, spesso nascoste dalle nubi che le rendono misteriose, diventano il simbolo del divino. Si pensi alla Ziqqurrat mesopotamica, all’Olimpo dei greci, al Sion ebraico, al Potala tibetano, al Fujiyama giapponese, alla Montagna Bianca dei Celti e così via. La montagna con la sua natura spesso incontaminata diventa luogo preferito per il colloquio con l’eterno, per cui l’uomo, salendo, è portato alla meditazione e alla riflessione spirituale. Quindi il monte può significare ascesi, distacco dal materiale e simboleggiare la tensione dell’uomo verso la divinità che abita i cieli. E’ per questo che tradizioni religiose di tutte le culture e di tutti tempi, alimentate da una inesauribile fantasia, hanno conferito a tante montagne un senso e un valore sacro, spazio di un possibile legame tra cielo e terra. Nella Bibbia la montagna è luogo della presenza di Dio, quindi della bellezza, del silenzio meditativo, della perfezione e della prova. Si fa così simbolo dell’elevazione dell’uomo. E poi il clima: così mutevole, bizzarro e imprevedibile. Il vento che come brezza accarezza ogni cima, all’improvviso può diventare violento e rabbioso, aggredendo e spazzando via ogni cosa. Il sole che scioglie inesorabilmente il ghiacciaio, riducendolo goccia a goccia in ruscello, in un attimo lascia il posto al buio pauroso di un temporale che scroscia terribile e porta a valle quanto è instabile. E quando la neve avvolge in un riposo cosmico la valli e le vette, e quando la sera dolce allunga le ombre degli alberi, e la notte viene a dare riposo al creato, l’uomo è costretto a dare a questi valori fisici valenza metafisica. Normale quindi che nel tentativo di spiegare questa massa confusa di elementi naturali, percepiti come strani e incomprensibili fenomeni, li abbia trasformati in racconti, miti, leggende.
Nel film Everest, il regista islandese Baltasar Kormàkur mette in chiaro il messaggio di fondo: le spedizioni commerciali sono pericolose e inopportune. Lo si vede nella scarsa preparazione degli alpinisti, nell’assurdità di voler raggiungere a tutti costi la vetta. Ma il film non da allo spettatore soltanto questo messaggio. Nello scorrere della pellicola lo spettatore può comprendere il perché l’uomo esplora le montagne, le sale a volte in condizioni ambientali e climatiche estreme sino al rischio della vita. L’uomo nell’ascendere lascia il peso della materialità, della monotonia, della quotidianità, ne prova struggente desiderio, ne assapora l’insopprimibile bisogno. E’ lassù sul monte che si sperimenta la contemplazione, anche tra fatica e sofferenza, che permette di uscire da sé per conoscere l’Altro.
Il film è finito, le luci della sala si riaccendono, dentro e fuori lo schermo si rincorre sempre la stessa domanda: «Perché lo fai? Perché è li».
Paolo Manenti