Sono trascorsi cinque anni da quel 2 aprile 2005, eppure sembra ieri. Basta riandare al ricordo di quella giornata e di nuovo l’intensità dell’emozione, il vuoto dell’anima dinanzi alla morte si riappropria di noi, segnando lo smarrimento. È stato amato da tutti, fedeli e laici, credenti e agnostici e tutti ancora lo piangono.
Quella sera del 2 aprile ero in casa, preparavo i materiali per la gita in montagna dell’indomani. Prima di andare a dormire, ascoltai il telegiornale delle 20, si diceva che le condizioni di papa Wojtyla continuavano a peggiorare e che ormai non c’era più nulla da fare. Il giorno successivo partimmo che era ancora buio per la Valle d’Aosta, eravamo senza radio e non sapemmo nulla delle vicende del papa. All’alba arrivammo a Cheneil in Valtournenche. Era una splendida giornata primaverile, altri scialpinisti erano già davanti a noi, salimmo il monte Roisetta, un itinerario con panorami di rara bellezza. Raggiungemmo la vetta verso metà mattina, davanti a noi la smisurata grandezza del Cervino, una vista che dà subito una misura di maestà, forza, altezza. E proprio mentre i nostri sguardi osservavano la sua mole, l’inconfondibile piramide che gigantesca sulla conca di Breuil, con emozioni da lasciarci attoniti, fummo informati dal gruppo che ci aveva preceduto della morte di papa Wojtyla. Rimasi commosso, mi allontanai dal gruppo per stare solo, il mio sguardo passava dalla visione del Cervino a quella del volto luminoso di papa Wojtyla, anch’Egli, come noi, amava la montagna. Pensai ad una frase che disse durante una sua vacanza in Cadore: «Davanti alla maestà dei monti, siamo spinti ad instaurare un rapporto più rispettoso con la natura. Allo stesso tempo, resi più coscienti del valore del cosmo, siamo stimolati a meditare sulla gravità delle tante profanazioni dell’ambiente perpetrate spesso con inammissibile leggerezza. L’uomo contemporaneo, quando si lascia affascinare da falsi miti, perde di vista le ricchezze e le speranze di vita racchiuse nel creato, mirabile dono della Provvidenza divina per l’intera umanità». Come per Elia, che incontrava Dio nella brezza carezzevole e riposante del monte Oreb, come per Mosè, che pregava sul monte per rincuorare il suo popolo in lotta per aprirsi un varco verso la libertà, così per Giovanni Paolo II il rapporto con la montagna fu quanto mai singolare. Esso risaliva agli anni della sua giovinezza, quando, appena prete, accompagnava gli studenti universitari sul Tatra, gli amati monti della sua patria. Un rapporto mai interrotto, neppure quando tutto sembrava impedirlo, a iniziare dalla salute. Nemmeno il fatto di essere diventato pontefice gli negò quelle uscite fuori porta - più di qualcuna “non ufficiale”, lasciando, per così dire, di nascosto il Vaticano - che tanto gli giovavano al corpo e all’anima. Molti dei suoi interventi, encicliche o discorsi che fossero, maturarono proprio in qualche rifugio montano e contemplando la bellezza di quanto Dio ha creato. Ventisei anni or sono furono le nevi dell’Adamello a costituire lo sfondo dello storico incontro tra il Papa polacco ed il presidente Pertini: un abbraccio caloroso, pieno d’affetto e di stima, tra un grande spirito laico e la voce della fede e della speranza in nome della pace. A colui che è stato definito il “teologo della montagna” sono stati dedicati alcuni tratti di montagna: dal sentiero carnico che porta al monte Peralba, a una delle cime abruzzesi del Gran Sasso, alla Cresta Croce sull’Adamello. Come non ricordare le sue ispirate parole del discorso tenuto nel 1986 al ghiacciaio della Brenva, sul monte Bianco: «Guardando le cime dei monti si ha l’impressione che la terra si proietti verso l’alto, quasi a voler toccare il cielo: in tale slancio l’uomo sente, in qualche modo, interpretata l’ansia di trascendente e di infinito… L’uomo contemporaneo, che sembra rivolgersi talvolta unicamente alle cose della terra, in una visione materialistica della vita, deve di nuovo saper guardare verso l’alto, verso le vette della grazia e della gloria, per le quali è stato creato e a cui è chiamato dalla bontà e grandezza di Dio».
L’immagine di papa Wojtyla rimane, nei miei ricordi, indissolubilmente legata all’icona del Cervino, simbolo delle Alpi ed espressione metaforica della montagna. «Non vi ha monte che prenda ai nostri occhi un'espressione così personale; siamo tentati di cercargli una fisionomia come ad un uomo, di credere che in quel capo enorme sia un pensiero». Così scriveva Guido Rey del Cervino all'inizio del Novecento. Non dimenticherò mai l’emozione di quel giorno di cinque anni fà, la maestà del Cervino ed il vento che mi accarezzava, quello stesso vento che durante i funerali di papa Wojtyla scompigliava le pagine del Vangelo posto a sigillo della bara sul sagrato, trascinando in vaticinio le parole dell'allora Cardinale Ratzinger: “... possiamo essere sicuri che il nostro amato Papa sta adesso alla finestra della casa del Padre e ci vede, ci benedice...”
Paolo Manenti